Il ruolo dello streaming e di internet nella fruizione della TV

Come detto precedentemente, internet ha ampliato la fruizione. Ha dato luogo a ciò che magari un canale televisivo per indubbia incapacità di trasmissione non riuscirebbe a trasmettere. Perché più di una giornata di palinsesto al giorno non puoi incasellare. Non puoi trasmettere un film o un programma in contemporanea, uno sull’altro, sullo stesso canale. Qui arriva internet, con la capacità di trasmettere senza onde radio televisive.

Le televisioni a pagamento, racchiudendo anche il satellitare, hanno fatto fare a loro modo un balzo in avanti alla televisione. Perché permettono cose, come scritto sopra, non possibili. Danno la possibilità alle persone di scegliere il proprio contenuto, qualsiasi esso sia. E non si può non salutare benevolmente questo traguardo: chiunque può vedere quello che vuole. Il solo limite è la capacità di connettersi alla rete, sia via cavo che satellitare o mobile.

E da questo scattano due problematiche, una elitaria e una tecnica. Quella elitaria riguarda chi può avere o meno una connessione ad alta potenza in tutte le sue forme. Cosa che coincide con la capacità singola di spendere soldi. Particolare rilevante perché fa aprire tutto un territorio di discussione riguardo la consapevolezza di quanto ci si può connettere alla rete. In alcuni casi molto ristretta, visto che alle volte si preferisce pagare più soldi a lungo raggio piuttosto che modulare la propria capacità di connessione cambiando operatore o cambiando connessione.

Riguardo alla tecnica, l’ignoranza dilaga. Perché esistono fasce molto abbondanti di popolazione e di utenti che cercano la grazia al santo di turno per potersi connettere quando magari non hanno la minima idea di quello che stanno firmando di contratto e di quanto andranno a pagare. Avendo dalla loro che in quel momento la connessione funziona e non vogliono nemmeno prendersi la briga di capire un pochino più a fondo. Come quelle folle di persone che si assiepano di fronte al negozio di un operatore. E, pur di avere connessione, sarebbero capaci di firmare cambiali col sangue.

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La funzione moderna della televisione

Il mezzo televisivo è stato e indubbiamente rimane un potente mezzo. Riesce ad arrivare molto più potentemente, chiedo scusa per la ripetizione, ma meno pervasivamente della radio, la sua lontana parente. Offre sia una esperienza visiva che una esperienza auditiva, cioè fa vedere e ascoltare in contemporanea. E negli ultimi anni ha subito una radicale trasformazione, inglobando il digitale ad un passato analogico, in cui era solo un meccanismo fisico e basta.

Più che funzione moderna, si dovrebbe parlare di funzioni al plurale. Perché a seconda dei diversi momenti in cui entra in azione, offre risultati differenti. Aver ampliato lo spazio con i canali digitali, ha dato più contenuti differentemente da quando i canali erano solo i 9 principali del telecomando, Rai Fininvest e qualche network privato. Ha permesso per esempio ai bambini di avere la propria programmazione separata rispetto agli spazi che i canali nazionali davano limitati orariamente nel loro palinsesto. Di cui ricordo la tv dei ragazzi della Rai e BimBumBam di Fininvest.

Ma si può anche fare un passo avanti, e mi scuso preventivamente con i lettori. Per chi ha sempre avuto bisogno di stimoli particolari, adesso esistono canali unici dove poter soddisfare le proprie voglie. Dalla pornografia fino allo shopping e alla cucina. Ma anche viaggi e adrenalina e motori vari.

Non si può citare internet, che permette una fruizione più amplificata e più capillare. Ma la televisione non può non essere annoverata tra quei mezzi che sono sopravvissuti cambiando qualcosa della loro struttura. E non parlo solo dell’aver abbandonato il tubo catodico per i cristalli liquidi e per il plasma. Ma aver spaziato il più possibile all’interno del mondo della conoscenza comune. Offrendo ai singoli spettatori il proprio contenuto preferito. In piena continuità oraria su canale singolo dedicato.

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Scuola: giusto educare al cibo?

Il momento scolastico, per uno studente, è un momento fondamentale. Da quel punto in poi possono partire la sua vita e il suo avvenire. Non si può negare che, chi più chi meno, ha avuto dalla poca o tanta scuola che ha frequentato molte basi della sua vita attuale. Io provengo dallo scientifico, anche se non ho avuto una grande votazione finale. Ma tante delle cose in cui ero platealmente negato mi hanno dato un ritorno successivo in un ambito molto scontato: la vita casalinga. Nozioni di fisica, chimica, matematica applicata all’economia domestica.

Non mi posso ritenere che soddisfatto della mia istruzione liceale. Senza nulla togliere a tutte le altre branche in cui sono stato immerso.

Di fronte a tutto questo, bisogna però dire che un ragazzo non può essere troppo sovraccaricato da insegnamenti a cui far fronte con studio e applicazione. E quindi estendere troppo l’orizzonte dell’apprendibile può creare difficoltà, anche solo per quello che è l’apprendimento generale. A cui bisogna, ripeto, far fronte.

Un ragazzo o una ragazza non sono delle macchine. Non sono capaci soltanto di ricevere e processare informazioni quasi all’infinito. Hanno i loro confini mentali e psicologici. E quindi dare anche la legittima conoscenza del mondo del cibo, per esempio, può diventare problematico. Non voglio dire che non è importante. Ma voglio solo dire che potrebbe essere troppo. Potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. E che può mettere i ragazzi in condizione di arrivare, come mi piace dire, in overload. Cioè non riuscire più nella base principale per eccesso di apprendimento.

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Scuola: giusto educare al cibo

Che cos’è un ragazzo o una ragazza che va a scuola? È un essere umano senziente, ci tengo a dirlo, che si affaccia al mondo. Come lo hanno conosciuto i loro genitori. E come loro stessi lo creeranno e lo affronteranno in prima persona. Ma a questo breve punto della questione non si può non avanzare una domanda molto circostanziata: l’educazione che ricevono i ragazzi si deve fermare alla unicità del programma scolastico, o può avere delle aperture anche fuori dal classico recinto diciamo nozionistico?

Io credo che una persona che vive nel mondo, con altre persone più o meno simili, non può non avere un allargamento della base di conoscenza anche a branche più settoriali. Nel nostro caso riguardo il mondo infinito, se lo si vuole vedere, del cibo e della gastronomia.

Nel passato mi è capitato di vedere, tradotta in doppiaggio in italiano, una trasmissione televisiva inglese in cui si è educati al cibo ragazzi e ragazze che non avevano la benchè minima capacità di non magiare altro che quel cibo definito in inglese junk food. Cioè cibo spazzatura: perfettamente commestibile, sia chiaro, ma totalmente al di fuori di una qualsivoglia dieta alimentare.

Si potrebbe anche sforare nel mondo televisivo americano, paese dove l’obesità è un problema comune quanto il raffreddore d’inverno. E dove la televisione ha trovato terreno fertile nel creare trasmissioni televisive che raccontano il dramma dell’obesità per uomini e donne. Ma il punto è questo: non si può prescindere nell’educazione singola dall’affrontare il tema del cibo e di cosa mangiamo. Bisogna dare dall’adolescenza il senso della nutrizione. La capacità di decidere propositivamente cosa e come mangiare. E avere, in linea di principio, la potenzialità a lungo termine di non avere problematiche di questo tipo.

Non vuol dire che il cibo spazzatura deve scomparire dalla faccia della Terra. Ma ci vorrebbe che il buon cibo sia a disposizione di ragazzi e ragazze che vogliono e possono mangiarlo. Senza per questo demonizzare: ma comprendere il vero valore del buon e sano cibo. Anche al di fuori della nostra grande dieta mediterranea…

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Il cibo è e rimane il piacere assoluto

Mi viene in mente un film con Renato Pozzetto e Carlo Verdone che recitano la parte di due dottori che aprono una clinica dimagrante a casa della moglie di uno dei due. Loro aprono la clinica ma poi va tutto a put**ne. E nel finale del film trasformano la clinica in un ristorante a cui le cose vanno molto meglio. Tutto a significare che privarsi del cibo non deve essere una cosa totalizzante: deve essere una cosa cosciente.

Ma alla base il concetto rimane uno soltanto: il cibo non può essere un problema. Il cibo per una persona deve essere la quint’essenza della bellezza. Godere davanti ad un buon piatto di pasta, o ad un arrosto o un pesce al forno, ad un dolce o ad altro non può essere sempre collegato al pensiero che nella mia oretta di corsa dovrò fare più movimento per smaltire una fetta di torta in più. È giusto avere moderazione nel mangiare. Ma non si può essere schiavi di se stessi. Della propria forma fisica.

Oltre che ad essere una pratica casalinga o lavorativa interessante, cucinare è un’arte. Che poi deve essere accompagnata da un piacere del mangiare quello che si è cucinato. Non è una vita piacevole avere sempre il braccialetto contacalorie o le tabelle sul cellulare. Per quantificare quante calorie ho assimilato e quanto movimento devo fare per non averle tutte sul groppone. Per meglio dire nella pancia maschile e nelle gambe femminili…

Ribadisco: bisogna stare attenti alla quantità e alla qualità del cibo. Ma non si può stare reclusi verso se stessi su quanto si mangia e quando si mangia, in certi casi. Se un giorno ci va di mangiare magari un cioccolatino in più rispetto al normale, perché ci dobbiamo castrare la fonte di sostanze benefiche del cioccolato? Perché si deve fare in modo di trovarsi poi in casi di anoressia dove il cibo diventa un nemico da combattere, quando il cibo è una felice compagnia della nostra giornata e della nostra vita?

Bisogna mangiare. Ed essere felici di quello che mangiamo. Con attenzione, ma felicità!

Marzo 2022

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L’educazione alimentare è una cosa importante

Il cibo è la base della nostra sopravvivenza. Noi viviamo perché ci nutriamo di alimenti vegetali e animali in base alle sostanze che questi ci fanno avere nel nostro organismo. Non bisogna dimenticare questo particolare, perché è un poco il fulcro della questione. Ci sono casi di bambini, adolescenti, ragazzi, adulti sia di genere maschile che femminile che questo fatto non lo considerano proprio.

Mangiare, nella maggior parte dei casi, è visto come una scocciatura per proseguire la propria attività lavorativa giornaliera. Che deve essere svolta, nemmeno gustata o assaporata, brevemente, economicamente e nelle vicinanze del proprio posto di lavoro. Oppure, peggio ancora, è un momento di mondanità da svolgere nel ristorante di tendenza o nella propria giornata di studente.

Tutto tranne quello che è più importante: la nostra salute. Il cibo infatti è un momento di salute per la nostra vita. E questo momento di salute non può essere fatto di panini, sempre. Di fritti, perché più spicci e goduriosi da consumare o più disponibili nei punti ristoro dei centri commerciali. O dei bar-ristorante sotto l’ufficio. Di hamburger e affini nei fast food, su cui è meglio non parlare altrimenti si starebbe a scrivere pagine e pagine.

Il cibo deve essere, per lo meno nella maggior parte dei casi della nostra vita, un momento fatto di bontà e geniunità. Che è il contrario di quello che ho detto qui sopra. Con questo non voglio dire che i fast food e affini non sono posti salutari, ma è il nostro approccio che può non esserlo. Alle volte è più adeguato mangiare frutta e verdura, con un poco di carne o pesce, piuttosto che vagonate di carboidrati e zuccheri e grassi.

Hanno un sapore decisamente diverso, ma alla lunga ci spappolano il fegato e ci fanno crescere la pancia a più non posso. Bisogna coltivare, nel proprio piccolo, una educazione al cibo. Alla coscienza del giusto, più che del buono, mangiare nella nostra giornata.

È una cosa che deve partire da bambini, dai nostri genitori. Altrimenti poi, quando si cresce, si può fare la fine di quelle persone in eccessivo sovrappeso, per non dire grassoni, che si vedono alla televisione fare la dieta. Si potrebbe dire che sono realtà diverse dalla nostra. Ma il principio è lo stesso: il cibo non è una educazione, ma una necessità psicologica. Non è abbinato alla volontà di fare attività fisica e alla esclusione di determinate schifezze oltre il limite consentito da una corretta alimentazione.

Il cibo deve essere un piacere. Ma deve anche essere una consapevolezza da non abbandonare mai. Anche in casi di depressione o anoressia e bulimia.

Marzo 2022

(Foto: https://pixabay.com/it/photos/patatine-fritte-fast-food-250641/)

La lunghezza nella teatralità è segno di adeguatezza

Raccontare una storia a teatro vuol dire mettere in scena la vita di qualcuno. O di qualcuna. Una vita, nella sua interezza, consta di tanti anni vissuti, cioè moltiplicati da 12 mesi, ovvero 365 giorni. A loro volta da moltiplicare di 24 ore, con tutti i minuti e i secondi in eccesso o in difetto a seconda dei punti di vista.

Si può forse pensare che un’ora o poco meno di spettacolo teatrale possano adeguatamente rappresentare tutti quei secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi e anni e decenni? Io credo proprio di no. Credo sinceramente che chi fa una scelta ultrapotenziata di sintesi per meglio dare in poche pennellate una vita, cioè uno spettacolo teatrale, non fa sempre una buona scelta.

La sintesi può essere una scelta che funziona in determinati luoghi e momenti. Ma non può essere “la” scelta. Non può sempre essere la scelta che rende a pieno sfumature e momenti pregnanti. Allungare, fino al considerabile, uno spettacolo teatrale può sembrare per il pubblico una pesantezza e un disincentivo. Ma ai veri cultori della drammaturgia e della commedia non sarà tale. Sarà segnale di un possibile spettacolo “vero”. Che cerca di corrispondere i personaggi e la narrazione il più possibile alla verità da cui essi attingono. Da cui provengono.

Non posso nemmeno io sopportare, mi si perdoni il verbo, uno spettacolo di 4-5 ore. Perché dopo un paio d’ore la sonnolenza si farebbe sentire. Ma se conosco una storia e la voglio vedere trasposta sul palcoscenico, con i dovuti accorgimenti teatrali, posso stare anche 2-3 ore seduto sulla mia poltrona. Potrei sopportare una narrazione allungata rispetto ad uno standard di sintesi tradizionale. Si può stare una giornata a seguire una stagione completa di puntate, non posso stare a teatro per tre ore con le dovute pause?

È un poco la stessa differenza, prendendo di nuovo a prestito un prodotto televisivo, tra una serie a puntate e un film. Sono due lunghezze differenti che rendono differentemente accurate le narrazioni delle storie. Una serie tv è nella maggior parte dei casi più interessante di un film. Perché rende più a tutto tondo i personaggi e i loro avvenimenti. Un film può essere bello quanto vuoi, ma sarà sempre costellato di scelte cinematografiche di sintesi e di narrazione. Non sempre apprezzabili…

Quindi non si può non affermare, per derivazione, che una storia troppo tagliuzzata per esigenze di formato non rende totalmente. La vita è complessa, ma rappresentabile. Partendo da questa, si passa ad una stagione di episodi per più sintesi, ma allungabile in più stagioni. Poi la teatralità di uno spettacolo, che può arrivare a più ore. E forse replicabile in un sequel o prequel. Dopo la cinematografia, in una oretta abbondante. Poi gestibile su più piani di passato o futuro. E alla fine una singola puntata televisiva, che pur introducente in una storia non la può quasi in nessun caso rappresentare.

Allungare, indietro o in avanti, rende abbondantemente meglio la complessità di una vita o di una storia. Ci vuole pazienza da parte del pubblico, ma il risultato poi è appagante.

(Foto: https://pixabay.com/it/photos/fotocamera-video-tv-1598620/)

La lunghezza della teatralità non è sempre positiva

Io non sono proprio un attore. Quindi si tratta di una opinione a metà. Ma non posso non partire da un altro particolare: sono uno spettatore. Come tale mi metto seduto sulla poltrona del pubblico e vorrei vedere lo spettacolo. Ma, a riguardo, arrivo alla sintesi successiva: non vorrei addormentarmi.

Ci sono spettacoli che ti tengono sveglio come nessuno. Ma ci sono spettacoli che invece fanno sonnecchiare nella maniera più assoluta. Si può trovare una mezza misura? Forse nel tempo dello spettacolo.

Ci sono esempi di film o di spettacoli che superano le 2 ore. Ma si tratta di particolarità che non hanno grossa replica. Mi viene in mente il film “Il comune senso del pudore” di Alberto Sordi. Che, a parte delle zozzerie e delle porcate che si possono vedere, supera le 2 ore di film. Ma lo stesso si fa vedere senza grosse problematiche di attenzione. Oppure “Il marchese Del Grillo”, che sfora abbondantemente.

Il resto del mondo cinematografico veleggia nella ora e mezza. Alle volte scarsa. E teatralmente il parallelo è tale: tanta lunghezza può diventare controproducente. Un autore teatrale può avere la migliore idea del mondo. Ma superare certi limiti di temporalità non può fare molto bene. Ad una buona riuscita del progetto di spettacolo…

Marzo 2022

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È sbagliato conoscere quello che gli altri ci vogliono dire

Su una tesi del genere, c’è un presupposto molto importante: alle volte gli altri possono essere tossici. Possono dire cosa negative o cattive che possono avvelenare la nostra correttezza o la nostra stabilità personale o spirituale. In questo caso l’errore è totale: non dobbiamo ascoltare gli altri.

Su questo si appoggia poi lo sviluppo di non dover ascoltare il nostro prossimo. Ma relegato solamente a quelle persone che possono non portarci conoscenza o si trovano in una situazione di disagio. Tale da avere la necessità di farsi ascoltare da qualcuno che ha un allenamento all’ascolto o alla conoscenza altrui. Come può essere un analista o uno psichiatra.

Perché magari noi non dobbiamo ascoltare gli altri. Per lo meno quelli più tossici. Ma per il resto l’ascolto non è totalmente negativo. Se non verso quelle persone che possono farci stare bene a parità di rapporto personale. Senza trovarsi in posizioni di rilevanza o di sudditanza.

Ribadisco che lo sbaglio sta esclusivamente nella scelta delle persone da ascoltare. Chiudersi totalmente al proprio prossimo è segno di problematica personale. Che deve essere affrontata con le giuste dinamiche. Noi siamo e saremo sempre animali sociali. Quindi con una socialità da svolgere più o meno approfonditamente.

Non ce lo dimentichiamo…

Marzo 2022

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È giusto conoscere quello che gli altri vogliono dire

Bisogna partire da un particolare: le persone possono avere qualcosa di interessante da dire. Partendo da questo, non si può che arrivare a dire che il proprio prossimo è una probabile fonte di conoscenza. Ne faccio un caso personale: nel mio lavoro il prossimo è una fonte di informazione. Naturalmente deve esserci una capacità di selezionare e settorializzare, ma il prossimo è una “fonte”.

Come si fa a sapere qualcosa sull’economia se non interpello un economista? Come si può conoscere il mondo del motociclismo o del calcio se non parli con un esperto delle discipline? Come si può sapere quello che uno pensa se non si parte dal volerglielo domandare?

Pensare che il proprio pensiero sia la base della conoscenza umana, non è altro che un riflesso illusorio. Razionalizzare se stessi come centro del mondo alle volte può essere corretto. Ma solo partendo dal presupposto che noi abbiamo nella nostra vita personale una capacità di conoscere più grande. O per lo meno paritaria alla capacità di conoscere quello che gli altri ci vogliono dire.

Perché noi, senza il nostro prossimo, non abbiamo nessuna speranza di essere onniscienti. O per lo meno pluriconoscenti.

Marzo 2022

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